Piccoli oggetti architettonici – dal Canada al Messico, dalla Norvegia al Cile, dagli USA alla Sicilia – crescono da un lato all’altro del pianeta sull’onda di nuove pratiche e nuovi istinti progettuali. La giornalista Valentina Ciuffi esplora.

I rifiuti di legno di Patkau Architects somigliavano ad un grupo di animali. Durante l' inverno 2011 hanno dato protezione ai pattinatori infreddoliti sopra un fiume ghiacciato in Winnipeg Canada; foto James Dow

Punti nello spazio: Esercizi (contemporanei) di scrittura del paesaggio | Novità

I rifiuti di legno di Patkau Architects somigliavano ad un grupo di animali. Durante l' inverno 2011 hanno dato protezione ai pattinatori infreddoliti sopra un fiume ghiacciato in Winnipeg Canada; foto James Dow

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Territori aperti, semi-deserti ma sempre meno remoti, così come spazi “selvatici” e poco definiti tra le pieghe del tessuto urbano, accolgono un rinnovato bisogno di spargere segni, un’urgenza di scrivere e rendere leggibili paesaggi ormai a portata di mano, ma ancora poco maneggevoli: avviene attraverso interventi puntuali, agili, ma visivamente potenti che crescono sempre più numerosi dentro nuovi riti e nuovi significati, nuovi modi di comportamento e di “movimento” su scala globale. Qualcosa di simile accadeva negli ’60/’70, con la "Land Art" (o meglio "Earthwork"), quando Richard Long ritornava a un’idea di paesaggio arcaico da segnare con gesti arcaici, azioni pioniere di scultori e artisti. Lui, Robert Smithson, Hamish Fulton, Dennis Oppenheim e molti altri, diventavano i nuovi esploratori, i nuovi instancabili ricercatori di territori sperduti e “vuoti”, precedendo gli architetti nel confronto con essi e nella loro rilettura, costruendo una filosofia per ripensarli e degli oggetti artistici per “marcarli”.

Il progetto "PicDesign" di Matteo Mocchi e Luca Poncellini è un contributo al laboratorio annuale Picnic al Tempio in Sicilia; foto NOWA

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Il progetto "PicDesign" di Matteo Mocchi e Luca Poncellini è un contributo al laboratorio annuale Picnic al Tempio in Sicilia; foto NOWA

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Oggi, in giorni in cui l’ubriacatura dei prodotti da archistar inizia a passare, molti architetti tornano a misurarsi con progetti a piccola (e anche piccolissima) scala: hanno la forma dell’installazione artistica e dimensioni più vicine a quelle del corpo, possono essere pensati e realizzati da cima a fondo dal loro autore, autoprodotti. L’asciugarsi dei budget e il diffondersi di un rapporto più consapevole con un pianeta ammaccato e maltrattato fa sì che questo nuovo approccio, consapevole e realistico, diventi anche, improvvisamente e finalmente, il più saggio da trasmettere, da insegnare. Come formare giovani architetti che difficilmente avranno l’opportunità di costruire a breve termine un progetto reale? Su quale strada metterli? Una possibilità, ultimamente molto cavalcata, è quella di metterli su voli low cost – tra le poche “materie prime” rimaste accessibili – e portarli al confronto con grandi spazi naturali, con la sensazione del vuoto e, soprattutto, in condizione di realizzare un oggetto dalla testa ai piedi. Ed è così che workshop, fortunatamente mossi da principi ecologici e da una sana (e necessaria) rivalutazione del lavoro manuale e artigiano, diventano prolifici produttori di nuovi segni per nuovi paesaggi.

Diverso, innanzitutto, è il modo dell’approdare e del confrontarsi: prima di un pensiero filosofico, di ogni ricerca accanita e solitaria guidata dal trasporto artistico, viene a crearsi infatti una relazione non troppo mediata con la vastità di territori poco o per nulla scritti. Si potrebbe pensare che l’insospettabilità di questo confronto spiazzante, come la possibilità, quasi inedita, di costruire manualmente, liberino singolari istinti arcaici (seppur molto ibridati): se l’uomo errante del Neolitico, sullo sfondo di una terra sterminata e davvero incommensurabile al ritmo dei suoi soli passi, innalzava i primi menhir – grosse pietre perpendicolari al suolo, primordiali tentativi di trasformazione fisica del paesaggio ma soprattutto oggetti simbolici – potrebbero le operazioni contemporanee cui riferiamo tradurre almeno in parte l’istintività di certi preistorici gesti?

Così, oggi, con occhi nutriti di riferimenti al passato (anche quello più lontano) e supposizioni sul presente, guardiamo ad oggetti spuntati qua e là, dal Cile alla Norvegia, dal Canada al Messico, alla Sicilia e dettati da un laboratorio formativo, appunto, ma anche da un concorso, o da un festival insediatosi temporaneamente in territori insoliti e poco frequentati. Raccogliamo, nelle pagine a seguire, le storie e le prassi che li circondano, i motivi e le funzioni per cui sono nati,ma anche, semplicemente, li osserviamo come farebbe un turista catapultato in loco dallo stesso low cost. Se, infatti, incuriosisce il nuovo clima (un misto di ragioni economiche e sociologiche) in cui questi oggetti-segni nascono, altrettanto nuova e inedita è la generazione dei loro possibili “lettori”, soprattutto quelli volanti e occasionali.

Per scaldare il fiume di ghiaccio

Patkau Architects ha disegnato e realizzato il Winnipeg Skating Shelters, in risposta a un concorso, al freddo impossibile del Canada, ma anche a uno scenario inedito prodotto da un’anomalia per cui il grande fiume che attraversa la città di Winnipeg si è congelato quando il livello dell’acqua era molto più alto del normale, generando un paesaggio “entropico” (per dirla alla Robert Smithson), una nuova forma di wilderness suburbana. Nel confrontarsi con questa scena – e con il compito di insediarvi dei rifugi per pattinatori infreddoliti – gli architetti di Patkau hanno iniziato a produrre dei modelli piegando sottili fogli di compensato, per arrivare a forme che hanno trovato il loro significato solo quando sono state disposte l’una accanto all’altra sullo sfondo gelato del fiume. “Inizialmente, nel modellare i pezzi, pensavamo alle immagini di alberi o pietre – dice James Eidse – poi nel posizionarli, anche seguendo le direzioni di sole e vento, ci siamo trovati a disporli in singolari relazioni tra di loro”. E continua: “All’improvviso somigliavano più ad animali, bufali o pinguini, radunati in una qualche forma di rituale o nel tentativo di proteggersi dal freddo”. In effetti, se vederli spuntare, quasi esseri viventi, in una scena immobilizzata dal ghiaccio scalda incredibilmente il paesaggio, nelle loro gobbe leggere e convergenti, si possono leggere chiari rimandi antropomorfi, inviti a riunirsi quanto meno in un contemporaneo rituale dell’interazione, tra una pattinata e l’altra.

I Winnipeg Skating Shelters di Patkau Architects sono stati eretti durante l' inverno 2011 sopra un fiume ghiacciato; foto James Dow

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I Winnipeg Skating Shelters di Patkau Architects sono stati eretti durante l' inverno 2011 sopra un fiume ghiacciato; foto James Dow

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Rojo PAQUIME – Paquimé, Chihuahua, Messico, luglio 2011

Lo studio PKMN di Madrid ingaggiato per un workshop dall’Università di Chihuahua elabora un sistema di segni a commentare la scena suggestiva che circonda il sito archeologico di Paquimé. Se i rimandi dichiarati – nella progettazione di una serie di oggetti-lettera che compongono la parola “Paquimé” – sono alle pratiche dadaiste del primo Novecento, alla mitica scritta che campeggia sulla collina di Hollywood e al rosso che colorava le antiche ceramiche della civiltà precolombiana conservate nel sito, nel quadro del nostro discorso non stonerebbe troppo neppure un collegamento con le antiche "Perdas Litteradas": così infatti, ancora oggi, i pastori Laconi di Sardegna chiamano le costruzioni del Megalitico sparse per l’isola. Se i menhir preistorici erano spesso vestiti di una chiara simbologia graffiata sulle loro superfici, se gli oggetti contemporanei che stiamo passando in rassegna sono, più o meno volontariamente, pensati anche come segni, nel caso del laboratorio Rojo Paquimé il doppio livello è esplicito. Tutti gli elementi, al di là della loro funzione – la lettera “A”, ad esempio, è anche un carrello, la “U” una doppia torre di vedetta – prendono la forma di un pezzo codificato di linguaggio, una forma “che d’altro canto – sottolineano i progettisti – li avvicina alla scala umana, in rosso contrasto con il paesaggio sterminato, e permette la loro mobilità, eventualmente la loro sparizione in un discorso re-interpretativo che rifiuta l’idea di permanenza”.

Ogetti/lettere che sono stati creati durante un workshop organizzato dello studio PKMN al sito archeologico di Paquimé, Chihuahua, Messico; foto PKMN [pac-man]

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Ogetti/lettere che sono stati creati durante un workshop organizzato dello studio PKMN al sito archeologico di Paquimé, Chihuahua, Messico; foto PKMN [pac-man]

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Per studiare e rileggere la Central Valley – Talca, Chile, dal 2004

Per gli studenti dell’Università di Talca, lo sperimentarsi nella costruzione a diretto contatto con il territorio piuttosto sconfinato della Central Valley coincide con la tesi di laurea. Come spiega Jose Luis Uribe, architetto e docente nella scuola, “laurearsi esponendo il modello di un progetto è controproducente da molti punti di vista, soprattutto in un paese come il Cile, dove, praticamente con la stessa spesa, è possibile arrivare a realizzare una piccola architettura.” Ed è a forza di tesi di laurea, “scritte” sul territorio dal 2004 a oggi e consistenti in mini-architetture di grande impatto visivo, che gli studenti di Talca hanno meravigliosamente riformulato il paesaggio della grande valle cilena. Tra i progetti del 2011, "La Lajuela" Balcony di Claudio Urzua allestisce un curioso punto di riferimento lungo la strada e verso le colline: rimanda a un contemporaneo cartellone pubblicitario, ma è una struttura tridimensionale vestita di un manto organico e un po’ tribale. E se in "Artisan Brick Oven Invested", Diego Parra sta semplicemente giocando con la disposizione tradizionale dei mattoni prodotti artigianalmente nella Central Valley, il risultato sembra un tempio Maya attualizzato. Mentre le strutture in legno riciclato del "Numpay Observatory", realizzate da Ignacio Loyola, circoscrivono l’area di un parco giochi, producono ombra, ma non è difficile ritrovarci una moderna e notevolmente alleggerita Stonehenge.

“Feria-Mirador La Lajuela”, progetto di tesi di Natalia Reyes Prieto, è stato realizzato nel 2010 nell’ambito del programma dell’Università di Talca; courtesy of Natalia Reyes Prieto

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“Feria-Mirador La Lajuela”, progetto di tesi di Natalia Reyes Prieto, è stato realizzato nel 2010 nell’ambito del programma dell’Università di Talca; courtesy of Natalia Reyes Prieto

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“Artisan Brick Oven Invested” di Diego Parra; courtesy of Diego Parra

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“Artisan Brick Oven Invested” di Diego Parra; courtesy of Diego Parra

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"Salineas - Un lugar para la historia" di Felipe Andrés Aranda Quiroz; courtesy of Felipe Aranda

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"Salineas - Un lugar para la historia" di Felipe Andrés Aranda Quiroz; courtesy of Felipe Aranda

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"La Lajuela Balcony" di Claudio Urzua; courtesy of Claudio Urzua

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"La Lajuela Balcony" di Claudio Urzua; courtesy of Claudio Urzua

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“Numpay Observatory” di Ignacio Loyola; courtesy of Ignacio Loyola

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“Numpay Observatory” di Ignacio Loyola; courtesy of Ignacio Loyola

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Attorno al lago, con le streghe e il serpente Seljord, Norvegia, giugno 2011

In Norvegia, nei pressi di Seljord, e attorno a un lago su cui già affacciava l’affascinante torre di legno realizzata da Sami Rintala, tre nuove piccole architetture sono cresciute nel giro di dieci giorni. A progettarle e costruirle sono stati gli studenti (provenienti da NABA, Politecnico di Milano e Fredrikstad School of Scenography) di un workshop condotto da Massimiliano Spadoni, Paolo Mestriner e Luca Poncellini, anche seguendo i modi e le idee dell’architetto finlandese con cui collaborano da tempo. Se da anni, infatti, Rintala insiste sulla necessità di ritornare a sperimentare in piccola scala, rimanendo più vicini alla dimensione reale dei corpi (nonché sulla necessità di istruire in questo senso le nuove generazioni), Spadoni e Mestriner hanno assistito, qui come in altri esperimenti, a un inaspettato risveglio dei loro allievi, che “lasciate alle spalle, miracolosamente, le classiche insicurezze attorno alla presentazione di un modellino in università, hanno intrapreso senza troppe paure l’attività del costruire”. Quasi istintivamente, non senza errori ma con uno slancio imprevisto, hanno tirato su tre oggetti che, nella loro semplicità, sono eccellenti “marcatori” del paesaggio: una sauna, un fishing point, un belvedere. Quest’ultimo, in particolare, ricorda nella disposizione degli elementi il cerchio dei rifugi di Winnipeg progettati da Patkau o, più genericamente, il cerchio attorno al quale può stringersi una conversazione, svolgersi un rito. Torna, a quanto pare non troppo premeditata, una caratterizzazione antropomorfa che – e questo è stato scoperto dopo parlando con i locali – ricalca inconsapevolmente un punto di osservazione leggendario, disegnandosi proprio in faccia alla collina dove usavano (lo dice la tradizione) radunarsi le streghe. È ancora della tradizione indigena, del resto, il raccogliersi in circolo attorno al fuoco, proprio nella forma del view point, per raccontare storie sul Sea-Serpent che abiterebbe il lago. E se la torre osservatorio un po’ totemica di Rintala rimanda facilmente a un legnoso mostro di Loch Ness, il lavoro migliore di queste architetture minime e puntualmente integrate nel paesaggio sta nella loro capacità di ritagliarlo efficacemente, creando artificiali e spettacolari punti di vista, conducendo lo sguardo dentro prospettive per nulla scontate, sorprendenti, verso il lago, e verso il cielo. Ma le pietre delle strutture megalitiche non valevano forse a ritagliare l’arco celeste, guidando per prime gli occhi tra i suoi astri?

Watch Tower di Sami Rintala, Seljord, Norvegia; foto Dag Jenssen

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Watch Tower di Sami Rintala, Seljord, Norvegia; foto Dag Jenssen

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Vista della sauna; foto Dag Jenssen

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Vista della sauna; foto Dag Jenssen

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Prospettiva dalla sauna; foto Dag Jenssen

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Prospettiva dalla sauna; foto Dag Jenssen

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Sauna dall' interno; foto Dag Jenssen

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Sauna dall' interno; foto Dag Jenssen

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Il progetto "Fishing Point"; foto Dag Jenssen

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Il progetto "Fishing Point"; foto Dag Jenssen

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Il progetto "View Point"; foto Luca Poncellini

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Il progetto "View Point"; foto Luca Poncellini

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Intuizione e vocazione del paesaggio – Caltagirone-San Michele-Piazza Armerina, Sicilia, dal 2005

Istantaneità e intuizione sono elementi chiave del laboratorio Picnic al Tempio, sviluppato e nutrito negli anni da Marco Navarra, Alessandro Rocca e Mario Lupano: un workshop annuale di quattro giorni, che porta studenti di tutto il mondo a confrontarsi con il paesaggio della sperduta campagna siciliana, nonché con un progetto lieve e puntuale che ne rilegge una porzione. Il Parco Lineare disegnato da Navarra a rielaborare l’ex linea ferrata che collegava Caltagirone con Piazza Armerina è infatti il percorso di riferimento rispetto al quale il laboratorio costruisce itinerari trasversali e disseminati di oggetti, nuove prospettive per lo sguardo. “È anche – spiega Marco Navarra – la necessità di confrontarsi con un tempo limitatissimo e con la verifica immediata dei risultati che porta a consapevolezze sorprendenti rispetto alla vocazione del paesaggio”, poi ad assecondarla
o sovvertirla intelligentemente, procedendo per mimesi o per sensata alterazione. I partecipanti vivono a strettissimo contatto per i pochi giorni di intenso lavoro, e la ritualità condivisa, molto curata anche rispetto ai momenti della convivialità, contribuisce a coltivare un’energia progettuale tradotta in oggetti minimi, ma fortemente iconici. C’è la stilizzazione di una chiesa disegnata con dei bastoni, c’è una torre-tempio di stracci, c’è la carcassa di una bicicletta che sembra quasi il resto di un rito sacrificale a istituire un nuovo segno nel paesaggio, un punto di riferimento provvisorio tra l’arcaico e la contemporaneità.

Vedute del “Parco Lineare” progetto di Marco Navarra realizzato nel 1998; foto Salvatore Gozzo

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Vedute del “Parco Lineare” progetto di Marco Navarra realizzato nel 1998; foto Salvatore Gozzo

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“PicGarden” di Giovanni Corbellini, realizzato in occasione di PicNic al Tempio #5 (2009); foto NOWA

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“PicGarden” di Giovanni Corbellini, realizzato in occasione di PicNic al Tempio #5 (2009); foto NOWA

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“Costruire l’ombra”, PicNic al Tempio #1 (2005); foto Peppe Maisto

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“Costruire l’ombra”, PicNic al Tempio #1 (2005); foto Peppe Maisto

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“PicTecture” di 2012 Architecten, PicNic al Tempio #5 (2009); foto NOWA

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“PicTecture” di 2012 Architecten, PicNic al Tempio #5 (2009); foto NOWA

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Un cratere nel deserto delle tracce – Mojave Desert, California, ottobre 2011

Nel bel libro "Deserti americani", Reyner Banham descrive il Mojave come “il più vero e il più prezioso, quello in cui si è liberi di andare dove si vuole, di fare ciò che si vuole, assumendosi la responsabilità delle conseguenze”, quello che mostra più tracce, resti, segni lasciati dall’uomo e lentamente, parzialmente, riassorbiti dal paesaggio: l’associazione High Desert Test Sites mira a produrne altri, attraverso un programma di workshop che coinvolge designer, architetti e artisti. Se il riferimento alla land art in questo caso è esplicito, e insistito, i nuovi segni portano con sé decisi riferimenti alla contemporaneità e alle sue forme. Le vecchie piscine abbandonate ai margini del deserto, tra fascino e desolazione, sono tra le immagini ispiratrici del progetto "Yucca Crater", che, d’altro canto, sembra l’accesso scenografico a uno spazio cavernoso che punta dritto alla pancia del deserto. Progettato da Ball-Nogues Studio, celebrato e utilizzato per soli due giorni lo scorso autunno, costruito riciclando il materiale che era servito a realizzare una precedente installazione, questo cratere per bagnanti arrampicatori del deserto ha visto prosciugarsi la sua vasca piuttosto in fretta, cedendo presto al suo spettacolare destino di nuovo e cangiante segno sul paesaggio. Principalmente per questo, del resto, era stato disegnato.

La piscina "Yucca Crater" di Ball-Nogues Studio, Mojave Desert, California; foto Scott Mayoral

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La piscina "Yucca Crater" di Ball-Nogues Studio, Mojave Desert, California; foto Scott Mayoral

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L'articolo è apparso su Abitare, n. 519